POETI DIALETTALI DEL NOVECENTO
Einaudi - 1987
Pagg. 209-229
a cura di FRANCO BREVINI
Con una sorprendente raccolta di versi in dialetto veneziano, Eugenio Tomiolo, «maestro in ombra» della pittura novecentesca approdato settantenne alla poesia, si è inaspettatamente imposto come il più autorevole successore di Giacomo Noventa (ma non andrà dimenticato Zanzotto, soprattutto per il suo splendido Filò, anche se i testi dialettali restano nugae in rapporto al ben più decisivo corpo a corpo che egli ingaggia con il sublime della nostra tradizione). La sua opera colpisce subito per l'eccentricità di fisionomia, riuscendo un caso isolato nel panorama letterario non soltanto dialettale. E per cominciare andrà rilevato il carattere religioso della sua poesia, di una religiosità però del tutto preconfessionale, raccolta nella contemplazione di un centro in quanto luogo abitato dal mistero, irriducibile a qualsiasi altra esperienza attualmente sviluppata in area orfico-simbolista. Poesia sacerdotale o poesia di preghiera, si potrebbe dire, a patto di sottolineare le componenti di immediatezza, di candore, di povertà di spirito e di semplicità di cuore, inseparabili da ogni relazione con il divino. Ma a questo punto si definisce meglio anche il tratto psicologico fondamentale del personaggio che dice io nelle poesie di Oséo gemo: un egotismo in quanto persistenza di una condizione infantile, che non conosce alcuna esperienza di mediazione con l'altro, allo stesso modo in cui risulta estraneo ad ogni interpretazione «culturale» della realtà. Inutile sottolineare la potenzialità poetica di una tale disposizione culturale, che significa pienezza di una forza vitale completamente concentrata su di sé, abbandono gioioso a tutte le sollecitazioni esterne, elusione della «prosa» adulta.
Il lettore di Oséo gemo - ma il rilievo vale anche per il cospicuo gruppo degli inediti - è colpito dalla incondizionata presenza del soggetto, che risulta il centro e il paradigma dell'intera realtà («xé sempre el mì che parla de mì solo»). Poesia radicalmente ancorata all'ordine della biografia, sviluppata per transizioni talvolta enigmatiche, perché maturate esclusivamente all'interno dell'esperienza, la poesia di Tomiolo propone la drammatizzazione delle tensioni sviluppate tra i diversi piani del soggetto («Cussì so' mì de mì in compagnia»).
La verginità culturale dell'autore non è riflessa, ma primaria, si direbbe il modo di essere del personaggio. Egli continua a protendersi verso le cose con la fiduciosa ignoranza («El no saver no me turba», ricorda Franco Loi, fra i primi interpreti, è un'affermazione ricorrente di Tomiolo) propria della condizione narcisistica infantile, lasciandosi candidamente investire dalla realtà, che finisce quasi per apparire una emanazione del soggetto. Di qui la straordinaria evidenza di questa poesia, che ha la concretezza di ciò che muove dal vissuto e solo attraverso di esso attinge la sfera della conoscenza. La rinuncia agli strumenti intellettuali - anche il mestiere della pittura, vedremo, passerà piuttosto attraverso l'esperienza artigianale, da cui l'arte moderna ha assunto le distanze - è vissuta da Tomiolo più come condizione esistenziale, che come scelta programmatica. Lo conferma ancora una volta la religiosità dell'autore, che si sviluppa infatti in questa direzione. Il suo approdo ad una visione gnostica, piuttosto che ad una delle religioni positive, nasce dall'impraticabilità della strada dottrinaria, a favore invece di una scoperta del divino come movimento interiore, come esperienza di conquista e di ascesa (con la conseguente attribuzione al divino di uno statuto molto prossimo a quello del Sé dell'uomo, nel senso attribuitogli dalla psicologia filosofica spiritualista). Svalutazione dunque delle istanze conoscitive presenti nella gnosi e accentuazione invece di quelle esistenziali, privilegio del fare sul sapere.
Il più intenso nucleo generatore di poesia nell'opera di Tomiolo è costituito dal contrasto fra questa soggettività fanciullesca, emozionale (ma, come evidente, prosciugata di ogni patetismo pascoliano) e la condizione anagrafica del vecchio, fra una pulsione vitale conservatasi intatta e una realtà corporale che si scopre sempre più insufficiente di fronte ad essa. E non si tratta soltanto del logoro tema del rimpianto della giovinezza, legato al contrasto tra un passato ed un presente, quanto piuttosto della tensione che si istituisce fra due componenti simultaneamente operanti del proprio io. La tristezza che nasce da tale tensione costituisce la tonalità sentimentale più caratteristica della poesia di Tomiolo, che è il diario di un uomo dolente e indifeso, tormentato dalla malinconia della propria sensualità («Deme ancora a pecar, un fià vu deme, / e ve prometo ancora, po', de obedir»).
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