Da FARSE LA LUNA
Liboà Editore - 1994
Prefazione di Giovanni Tesio
Forse il cuore di tutta la poesia di Eugenio Tomiolo è in questa «goccia» di Aqua: "Poesia pol essar poca e dimessa, / Questo ne resta come verità". Ce lo ha ricordato proprio ora la felice concomitanza di una lettura sapiente che Alessandro Spina, "amico lontano" e amoroso interprete, ha fatto di Cristina Campo: la più pura verità "prende vesti modeste". Ma è tuttavia una ascesi quella che la poesia disegna, un percorso di perfezione che va dallo sguardo cosmico e segreto della luna e delle stelle all'aroma dell'anima liberata in un'offerta domestica e rituale.
La poesia di Tomiolo è cosmica non solo perché parla a Dio, ma perché parla all'uomo e a tutte le cose dell'uomo, cosmica perché guarda all'infinito e umana perché guarda alle vicissitudini della vita. La sua cosmogonia non è che dialogo con la radice di Dio, la sua umanità non è che compassione dell'uomo - in senso tolstoiano -, la fraternità di una ricerca raminga e comune, non esclusa la malizia che ci " impidocchia" : dialogo, insomma, con la morte.
Come non ricordare per questo proprio: La morte di Ivan Il'ic? Quel pianto che è già ascolto e colloquio con l'anima, la sconfitta della menzogna che è fuori e dentro di noi, il sentimento dell'errore e la gioia, che come ogni gioia vera riesce finalmente ad aprirsi un varco. E' l'assoluto che parla attraverso il quotidiano, l'universale che passa attraverso l'idiomatico. Tanto più dunque il dialetto veneziano di Tomiolo coincide con la natura quotidiana e feriale della sua ferita, con l'urgenza umile e sgranata della sua tensione.
Non a caso in Tomiolo vale l'immagine esemplare dell' acqua, simbolo del flessibile sul resistente, del mutamento sull'immobilità. Quella che si contempla, in questo mondo, è una sorta di creaturalità domestica, di nudità feriale ma profondamente religiosa. Tomiolo (e il suo io poetico per lui in strettissima simbiosi), si svuota per essere riempito, si spoglia per essere vestito, si fa ombra per essere illuminato. In Dio riconosce la cuspide e il principio di ogni contraddizione e risolve nel tutto di Lui le infinite condensazioni dei dettagli, dei particolari. Già in Osèo gemo: "Parlar xé canto opur slogar el dio" (Parlare è canto oppure sluogare il dio).
Il poeta non occulta le tracce delle sue occasioni, quelle che lo incalzano da presso e che gli dettano parole imprescindibili dal luogo e dal tempo, sempre tuttavia da scavalcare: " Sempre caro mi fu quest'ermo colle ... ". L'io poetico di Tomiolo sta sì dentro l'occasione, spoglio, scabro, tanto che noi lo incontriamo lì, crocifisso al suo attimo, in quel suo remare ("Me vado par canal, do remi in crose"). Ma mira all'assoluto, contrapponendo allo spirito del possesso quello dell'offerta.
La poesia non sarebbe però poesia se non esprimesse un processo, se non ci dicesse la natura del dramma, se non svelasse i suoi fremiti e i suoi tremiti magari sotto l'obliqua specie delle figure, realistiche e insieme quasi surreali: "perfin el pèsse trema le delissie". Così come nella confessione: "Dormir me piase come gninte fusse / sora dei pessi freschi e pensierosi". La luna, del resto, come l'acqua, è il simbolo del farsi, ancora una volta del movimento che rinnova.
E vediamola dunque un po' più da vicino questa poesia di Farse la luna. "Poesia xé Lu e mi e quei che scolta", aveva già annunciato in Aqua, e dentro la centralità di quel "mi" c'è tutto il valore di ricezione e di comunicazione dell'ascolto, la sua natura di tramite. Nessun hortus conclusus, per quanto nobile possa suonare: "Mi digo e vialtri feme i coretori". La parola non è definitiva, è dialogo; la solitudine non è che una necessità transitoria, che postula la camaraderie: "'ndemo a spartarse a spasemar col vin". E del resto il dialogo (il dramma) è già in interiore homine tra due funzioni: di "versador" e di "omo". Come "versador" quel mi racconta fiabe, come "amo" piange.
E' la materia stessa del contraddittorio poetico, non esente da un'ironia assai fine, detta nei modi della parola dialettale che mette il sale grosso sulla retorica del sacro: "Co' se fa scura parte de la Musa / te pisso dòsso e tì ti fa i sighessi". Eccola dunque la nudità contro ogni paludamento, come simbolo figurale dell'umiltà, presupposto (a sua volta) di ogni vera trasformazione, di ogni autentico dono: "Vado compare e no so se torno, / lasso qua tuto, ti disponi e dona".
E' la lotta, appunto, contro lo spirito del possesso: "Mi no go gnente e so de pochi schei". In questa direzione va la poesia più significativa della raccolta: "vogio cantar, ma me go poca vose", eccetera. Nella sua austerità povera e confessa, nella sua umanità dolente e difettiva, la contentezza esiste, radicata in quel Dio da "sluogare". Un Dio, che non è un trionfo di eroi, ma una conquista naturaliter umana, un bisogno dell'uomo, un'esigenza per così dire biologica dell'essere. Per altra situazione Cioran una volta ha commentato: "La vita senza utopia, a lungo andare, diventa intollerabile [ ... ]: il mondo ha bisogno di un delirio nuovo o rischia di pietrificarsi". Eccone la traduzione simultanea di Tomiolo: "Restìo so mi de compararme piere". Sono restio nel compararmi a pietre.
Contano qui, sopra tutti gli altri sensi, l'ascoltare e il guardare. Un ascoltare e un guardare intensivi, che scendono nei meandri fino all' anima per cogliervi ciò che non è che chiaro: "Anima mia gnissun te scolta el canto". Ma soprattutto la vista, vera e propria chiave d'ingresso: "vago vardando cosa xè che'l sia", oppure: "Ciave vardae de sora de la tola", e ancora, a rinserrare più di ogni dove il senso del visivo: "El mondo xè pitura", con quel che segue, davvero vicino al realismo figurale e medioevale di cui ha discorso a suo tempo l'Auerbach: "Vardo natura farse alegoria / che la se volta par mostrarme el viso". E c'è a questo punto, nella raccolta, una variante in bozze che va segnalata per la sua pertinenza. In "Ciave vardae de sora de la tola", Tomiolo aveva chiuso scrivendo: "parchè la nòte sò figura fassa", che era un verso opportuno ma più scenografico. È diventato pertanto: "parchè la nòte diga sò figura", con esito decisamente più enigmatico e vicino al senso "figurale" delle cose, oggetti che segnano nella loro densità i tragitti dell'anima e di Dio.
Solo guardando nella superficie si può cogliere il profondo e di ogni cosa il suo rovescio, secondo il detto del Qohelet: "Il savio ha gli occhi in fronte, ma lo stolto cammina nel buio". Ciò che non preserva dall'impasse, ma che alla fine approda al suo destino; e Farse la luna rivela il suo crescendo di tensione: "Quel che mi vogio smentegar el varda", fino all'ultimo componimento, vero e proprio tumulto di contraddizione:
Caparbio sò de serto a sercar Dio,
Che son ligà a 'na crose che son mì.
El mar xé gorgo anca se tranquilo.
E con un fià de alegria me torturo
par vedar afiorar el grando Amor
co' vogia de desfar 'sto esser mio
qua e 'desso te spèto, e no ti vien.
Se sò impotente lo so ben parchè,
ma no lo dir che mi no vogio ver".
Che cos'è Dio del resto se non infinita coincidenza degli opposti? termine fisso d'ogni paradosso? volto della luna che sempre rinnova, della luce che vince il buio a cui discende per necessità? La profonda unità del nuovo libro di Tomiolo (piccolo di numero, rispetto a Osèo gemo e ad Aqua, ma certo non minore), scaturisce da questo centro a cui ogni periferia concorre. Mentre il veneziano incarna, forse, più di ogni altro mezzo la quotidianità e la ferialità dell'occasione, la regolarità dell'endecasillabo e la costanza appena dissimulata delle rime giocate in (callidissimae iuncturae) offrono la miglior corrispondenza del proposito. Nel gioco primario della cattura verbale si rinserra il senso musicale delle sfere a cui l'io poetico di Tomiolo ci invita come una preghiera del Cantico dei Cantici: "musiche ofrimo che le vada al çielo, / che nassa ben el verso, che'l sia belo, / vegna eleganza par ornar la cosa". Specie se quella cosa è Dio.
Giovanni Tesio
Franco Loi
per Silloge "Farse la luna", Novembre 1994
Recentemente, parlando con Cristiano Maria Charlot, ne venne fuori un discorso attorno alla condizione dell'uomo e del popolo nel momento attuale, e lui ebbe a dire che la risposta più adeguata alle domande di senso può essere data soltanto dall'arte e dalla poesia. Questa intuizione mi torna alla mente mentre leggo nella prefazione di Giovanni Tesio a Farse la Luna di Eugenio Tomiolo il risalto che viene dato ad un distico tratto dal volumetto di poesie edito da Liboà Editore a Dogliani: "Poesia pol essar poca e dimessa/ Questo ne resta come verità".
Del resto, Tomiolo non è nuovo a queste: sentenze. "Poesia xé Lu e mi e quei che scolta" aveva già scritto in Aqua e in Oseo Gemo aveva suggerito che "parlar xé canto opur slogar el dio".
Chi conosce la pittura di Tomiolo, così sapientemente sostenuta dall'arte e compiuta nella semplicità formale, ma essenzialmente allegorica, non si sorprende nel ritrovare nella sua poesia i temi, gli umori e la grazia dei suoi dipinti. Certo, sappiamo la poesia essere un modo di affrontare la realtà prima che un genere letterario, e proprio in questo senso padre Cristiano intende sottolineare il carattere rivelatore della bellezza, forma di un rapporto tra le essenze.
Ma non si creda che questa sia una poesia di carattere confessionale, poesia religiosa. Ma solo in quanto religiosa è comunque la poesia, come già è stato ribadito dal Petrarca ad Ungaretti. Poiché non c'è una poesia laica e una religiosa, essendo unitario e totale il rapporto che l'uomo ha col mondo, e non essendoci poesia là ove non ci sia il confronto con l'infinito, anche attraverso le forme finite. Proprio come una è la cultura, e soltanto una visione miope e riduttiva della realtà può presu¬mere di separarla a seconda delle ideologie o delle dottrine. Giacché, unico e polivalente e lo sforzo dell'uomo per conoscere e per accrescere la propria coscienza.
Viene a proposito una dichiarazione di Tomiolo, fatta a suo tempo a proposito dell'arte: "La natura contiene l'invisibile, e le forme sono sacre in quanto espressione necessaria all'energia creativa. La mela di Cezanne non è un fatto geometrico, ma, innanzitutto, una mela. Se energia, massa e luce e tempo si presentano a noi nelle forme degli esseri e delle cose in natura, l'artista deve pur far la fatica di giungere alla compiutezza della forma".
Ebbene questa poesia, senza pretendere di fare filosofia o teologia, è ricca di questo sforzo, dell'intento di trar pensieri o suscitar pensieri nel trascorrere tra le forme e, nel farlo, ottemperare al semplice apparire delle forme naturali. "Me vado par canal, do remi in crose, / premando nel ciaror de la giornata / co' dosso el ricordar ombre amorose. / No piove pian la polvare su tuto. / Quelo che verze, dopo ancora sèra, / vogo vardando cossà xè che'l sia".
Siamo alla modestia e al coraggio, alla delicatezza dell'avvicinamento alle forme, nella speranza di trovarvi o far presentire quell'essenza che già la tradizione ha giudicato imprendibile - "Oh quanto è corto il dire, e come .fioco... E già lo stesso Tomiolo aveva scritto: "Cossa me piasarìa far 'na poesia liziera / che restasse su par aria...", concependo appunto la poesia nell'intimo congiungimento con quelle forme che di per sé non reggono il supporto della parola: quasi un'afonia, certo un'impotenza tecnica rispetto al sentimento che ci attraversa. Dunque, la poesia quale tramite alla realtà, e l'immagine quale allegoria. "El mondo xe pitura e mì ghe stago./ No importa cossa el veda, cossa el fassa / sto me penèlo desfinà da l'uso./ Vedo natura farse allegoria / che la se volta per mostrarne el viso". E tuttavia un compito doveroso, quello dell'artista, del poeta, riaddensare attorno alle cose i significati riposti, far riemergere dalle forme la pienezza di risposte, non attraverso concetti o intellettuali spiegazioni, ma nell'abbraccio del sentire con la mente, nell'orientamento che viene dato dalla riproposizione di un ordine.
Franco Loi
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