Da AQUA
Scheiwiller Editore - 1991
Prefazione di Franco De Faveri
LE MUSICHE DI PROTEO
«Cogito ergo sum» è un po' l'emblema della nostra modernità. Esso dice essenzialmente che non è più l'essere, il « sum », che fonda il pensiero, il « cogito », come era per l'antropologia pre-cartesiana; ora, invece, dopo Cartesio, cioè nella modernità di cui egli è l'esponente più in vista, è il « cogito » che fonda il « sum ». La formula cartesiana dice allora insieme l'essenzialità e quasi l'assillo del pensiero (cosa avviene se non penso più, se non sono più, magari disperatamente, conscio di me stesso?), e la perdita dell'essere. Una conseguenza meno evidente del nuovo modo di sentire è lo svuotamento della cosmicità dell'uomo, della « res cogitans ». Il «cogito» infatti, non si estende al di là del soggetto chiuso - e quasi murato in se stesso; al di là del soggetto, come è noto, c'è il dubbio universale che investe tutto ciò che non è la « res cogitans » individualmente considerata; un dubbio che è di fatto, allora, dubbio cosmico. Come fare, ormai, a parlare della bontà del cosmo, della sua verità e bellezza?
La poesia, le arti, non potevano non venire investite dalla nuova sensibilità, per cui ormai il cosmo è cieco (Sedlmayr parla infatti di « morte della luce» a questo proposito), e anzi, letteralmente, morto, mero oggetto di manipolazioni che hanno come scopo l'utile. Ma l'arte, la poesia, non registrano soltanto tale stato di cose; esse, anche vi reagiscono come possono, col nuovo dolore cosmico dell'Io solitario, o con la protesta, con la preghiera.
Non sarebbe difficile dimostrare come la nuova poesia « dialettale » qui da noi (che è dialettale in senso letterale, come luogo del dialogo), nasce appunto dalla reazione, si dica, se si vuole, post-moderna, al dolore della modernità.
E' proprio sullo sfondo della modernità come dolore, nel senso suddetto, e come reazione ad essa, che vanno lette le poesie del Tomiolo, il cui primo libro, «Osèo Gemo», è uscito presso Scheiwiller nel 1984 (con prefazione di Franco Loi). Lo contraddistingueva una vena di arrovellata religiosità, esprimentesi nelle forme che erano state proprie alla poesia metafisica del barocco migliore: la ricchezza dei temi più alti, nel loro rispecchiarsi psicologico nell'Io lirico, trovava l'espressione più adeguata nei modi classici del sublime, l'allegoria, l'ossimoro, l'insistita anafora, e su altro piano, l'invocazione e il lamento; il tutto con un tono arieggiante il salmo, il cui dialogico corrispondente non può essere che l'Uno (e con un vero e proprio salmo si chiudeva questo libro).
Viene allora spontanea la domanda, per chi del primo libro del Tomiolo si è occupato, di quale e quanta sia la continuità con esso del secondo, dal1'enigmatico veneziano titolo Aqua. Un primo avvio per tale misurazione potrebbe essere l'analisi del ruolo che riveste qui l'Io lirico. Il quale, in Osèo Gemo, aveva i caratteri somatici del demiurgo onnipresente (« xe sempre el mi che parla de mi solo ») in modo quasi da oscurare, a volte, il destinatario e vero interlocutore del poeta, che era Dio stesso. E quasi si avvertiva una lotta tra lo e Dio, quasi un'opposizione a cui difficile riusciva l'abbandono.
Comunque, tra lo e Dio veniva ad inserirsi il mondo e la vita, sentita più come una diatesi dell'Io, il quale ne percorreva le vicende immerso in situazioni essenziali, espresse con verbi coloriti e movimentati, come il vogare, il costruire (il vascello-altare), il godere vario delle fragranti gioie del mondo.
Di fronte alla ricchezza del vivere mondano, rispecchiata da Osèo gemo, Aqua presenta quasi, a prima vista, una chiusura d'orizzonte: uno solo dei temi principali del primo libro, permane nel secondo: l'amore; e vi permane, del resto, sublimato in Amore con la maiuscola come Amor Dei (col genitivo soggettivo e oggettivo insieme). Tanto che le varie figure femminili (tra cui spiccava quella della moglie, perduta) di Osèo gemo, ora sono venute a confluire in un generico «dona» (donna) senza connotati individuali, mentre il « tu» del dialogo o ha come referente lo stesso lo lirico (sicché il dialogo ha ormai natura monologica), od è pronto, esso pure, a sublimarsi nel Tu.
L'Io vivace e mobilissimo del primo libro aveva trovato la sua più adeguata espressione allegorico-metaforica nell'elemento del fuoco, elemento non a caso là dominante; nel nuovo libro il fuoco, non certo scomparso (si vedano le ultime poesie, ad esempio), assume un significato e una funzione diversa. Esso, con gli altri elementi della cosmologia del poeta, terra, acqua, aria, viene a costituire la sostanza di un cosmo che è la carne stessa che costituisce l'Io, il quale espande i propri confini a contenere per esempio, come nella quarta poesia, il grande paesaggio lagunare, dai delicati toni impressionistici (« le vele panse », le panciute vele, p. 20), oppure come a p. 54 si trasfonde per il tramite del verso nell'universale armonia del cosmo, tutto vivente (p. 23: «tuto vive») e vivente come armonia divina (si veda p. 62 specialmente, ma gli esempi sarebbero poi tanti).
La poesia del Tomiolo si vuole dunque specchio e insieme esecuzione della ben più alta e sublime poesia che è il cosmo stesso, opera, musica divina.
Musica le cui note, a volte chiocce, sono i quattro elementi, terra, fuoco, aria, acqua, che costituiscono il tessuto poetico di questo nuovo De rerum natura.
La poesia del Tomiolo si vuole dunque specchio e insieme esecuzione della ben più alta e sublime poesia che è il cosmo stesso, opera, musica divina.
Un particolarissimo ruolo spetta qui all'acqua, non a caso (e non solo, allora, per amore della venezianità) preso a titolo-emblema del libro. L'acqua infatti, è l'elemento proteiforme (a sua volta immagine del poeta) che è pronto a scambiare con tutti gli altri i suoi attributi, come mostra chiaro l'aggettivazione: se sostantivi diciamo gli elementi nei loro caratteri particolari, l'aggettivo ne altera e sfigura l'originaria natura, trasformando, ad esempio, quel coagulo cosmico del fuoco che è il sole, in una sostanza paradossalmente acquorea; o, anche, facendo della solidità terrena una specie di concentrato di mare.
Salina è l'acqua amara del mare, e salini sono i fiori del mare (p. 43), ma salino poi è anche il sole (p. 21) per quella circolazione misteriosa dei predicati che costituisce il sangue e l'unità nascosta di questa raccolta poetica.
Unità concretata dal Proteo che è l'acqua, ma che è poi anche il poeta stesso, il quale, radicato nel mondo (p. 24 « Poeta sò, pitor ne l'universo»), diventa il luogo privilegiato dell'esecuzione del divino canto, con un complesso gioco di rimandi speculari tra alto e basso tra i quali si stabilisce una corrente continua a due dimensioni, quella della poesia (che possiamo dire soggettiva), che implora la Grazia, rispondente a quella della poesia oggettiva e cosmica, che è questa Grazia stessa.
E nasce, su questo fondo religioso e implicitamente teologico, tutto un gioco d'echi, espresso con immagini vibranti di una ricchissima vita segreta, di cui vorrei citare almeno una, quella che (p. 18) mostra, dalle altezze sideree, il crollo di misteriose rocce lunari nell'acqua del mare: «Casca le roce da la luna in mar».
Franco de Faveri
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