Da LAGUNA
presso Accademia dei Concordi di Rovigo, 1985
Prefazione di Franco Brevini
La «difficoltà» di queste tavole è una difficoltà culturale. Nasce dalla distanza degli strumenti interpretativi messi in opera dall'autore rispetto allo sviluppo delle scienze post-rinascimentali, all'origine delle nostre categorie conoscitive. AI primato della ragione egli oppone infatti una concezione di tipo esoterico, che si ricollega alla mistica medioevale e si apparenta semmai alle culture orientali. Il tema della laguna, affrontato dietro una urgenza evidentemente autobiografica, resa più bruciante dalla nostalgia del reduce, offre a Tomiolo l'occasione di rappresentare una ennesima «apparizione del mondo» (Loi) - non è un caso che la scelta sia caduta sulle acque deserte e in qualche modo basiche di Torcello, invece che su quelle più storiche di Venezia. Stilema fin troppo usurato, quasi a-priori di ogni esperienza estetica marciana, la laguna in quanto luogo epifanico della luce imponeva a Tomiolo una prova ai limiti delle possibilità espressive del mezzo grafico: tradurre in un linguaggio di segni una realtà coloristico-luminosa. Ma la soluzione risiedeva nel centro stesso del suo sistema. Oltre il piano della mimesi, rompendo ogni limite illustrativo, Tomiolo perviene ad una risoluzione puramente ritmica dell'immagine, che ne isola le essenze. E non si tratta propriamente di interiorizzazione, bensì di una fusione dei due piani, quello soggettivo e quello oggettivo, che interviene nel corso dell'operazione conoscitiva stessa (si veda la ricorrenza di titoli quali «armonico», che alludono ad una vicenda giocata ormai oltre il livello dei dati naturali, fino a fare della creazione artistica medesima un momento del mondo lagunare), trasfor¬mandola in un'operazione nel contempo morale - illuminante un distico ritrovato da Francesco Porzio tra le carte di Tomiolo: «Amare è intendere / intendere senza amare non è dato», Il risultato è un'immagine prosciugata, pervenuta ad una sintesi pressoché assoluta, giocata su una costante compenetrazione della figura e dello spazio, che vede la sostituzione della prospettiva (la realtà razionalisticamente pensata) con una scomposizione obbediente ad una sorta di cubismo mistico. Nelle prove più estreme Tomiolo perviene ad una forma aperta, che si traduce in un puro geroglifico del ritmo, agli antipodi delle tendenze oggettuali diffuse negli anni Sessanta, cui questa sequenza risale, non meno che dell'informale, negato a quel rapporto con il visibile naturale, che resta comunque la sola strada aperta all'invisibile spirituale.
Franco Brevini
«Laguna è un insieme di immagini «trasferite». La certezza della loro essenza mi ha dato gioia, anche se la mente non trovava per loro una giustificazione. Questo insieme di figure parla dell'attrazione che mi portò a rivedere forme e movimento nei luoghi della mia origine e a ritrovare nella memoria un amore senza usura».
Eugenio Tomiolo
Eugenio Tomiolo nasce a Venezia il 18 dicembre 1911. Dopo aver frequentato la Scuola d'Arte dei Carmini, fa pratica presso il restauratore Moro e presso il maestro del ferro Umberto Bellotto.
In seguito raggiunge Legnago dove la famiglia si è nel frattempo trasferita. Durante l'anno 1934-35, frequenta l'Accademia Cignaroli di Verona, che poi è costretto a lasciare per la guerra d'Abissinia.
Dal 1937 vive a Roma fino all'inizio delle ostilità del '40. Nel 1941-42, durante un congedo, esegue i seguenti cicli di affreschi: «Vecchio e Nuovo Testamento» per la Cappella funeraria Corradini in S. Vito di Legnago, «Storie recenti d'Italia» per la Cappella Bragadin a Padova e «Quattro sogni profetici di S. Giovanni Bosco» per la Chiesa del Collegio Salesiano di Porto Legnago - gli ultimi due distrutti dagli eventi bellici.
Dal 1945 è stabilito a Milano dove vive le vicende artistiche legate alla ripresa del dopoguerra. Nel 1952 è chiamato a dipingere la pala d'altare per la Colonia Marina A.G.I.P. di Cesenatico e nel 1962 a scolpire un grande presepio in legno per la Colonia Alpina E.N.I. di Borca di Cadore, attualmente della Chiesa di Metanopoli a Milano. Inventa nel 1967, due grandi mosaici di smalto vetroso per il nuovo ospedale civile di Legnago.
La sua multiforme attività trova sbocco in tutta una serie di mostre (una ventina di personali e numerose collettive), che richiamano su di lui l'attenzione della critica più avveduta. Nascono articoli, saggi, monografie, nei quali si avvia lo studio dell'opera di Tomiolo, che si impone ormai come un maestro del Novecento. Nel 1970, in occasione della mostra personale di incisioni a Parigi, il Gabinetto delle Stampe del Louvre ha acquistato tre fogli.
All'anno scorso risale l'esordio letterario con la pubblicazione di una raccolta di poesie venete, Oséo gemo, che gli vale subito un posto tra i migliori poeti dialettali contemporanei.
Deduzioni di Eugenio Tomiolo su LAGUNA
1968
(Laguna: serie di 71 acqueforti ideate nel 1967 nel vagabondaggio, con un piccolo "sandolo", fra le barene di Torcello)
Immerso nell'ambiente lagunare, nella presenza e nel ricordo, fantasticavo del futuro. In queste immagini ora prevalgono proiezioni della mia giovinezza e anche dell'infanzia, ora della presenza o del futuro; inoltre, la loro apparizione avviene a varie condizioni di realizzazione. Perciò l'apparizione nella contemplazione si pone ora come un simbolo formato da un'aritmia direttamente promossa dall'ambiente fisico, finito, ora da un'interiore organizzazione delle forze formanti per un'immagine che ha in sé elementi convincenti, almeno per me, ma la relazione col mondo finito, solo in quanto consta graficamente dei quattro ordini di linee (piana, tonda, sù e giù, tutte assieme); inoltre, pur avendo sostanza e spessore, non ha sufficiente opacità da assumere gravità pittorica.
Il mezzo, il veicolo, è la punta cruda sul metallo crudo e, malgrado la resistenza opposta dalla lastra, non mi rendevo ragione di come la punta incidesse profondamente alzando, come un vomere, un rivolo assai alto di metallo che non si può chiamare barba. Essendo questa assai più bassa e modesta rispetto all'alta e continua cresta che il conico della punta, rivolta sulla superficie, al limite del solco, senza che io avvertissi la resistenza; al punto che i segni mi venivano in tutto il desiderio, come se tenessi leggera la mano su un potente pantografo meccanico.
Questo fatto, che ritengo per mie virtualità parascientifiche moderne, un segno sicuro di artistica fortuna, mi induce a far vedere queste stampe senza il dubbio che avrei sempre al collo, se fossero prodotto del mio ingegno e quindi del mio sforzo, ma essendomi invece state regalate come gratificazione, forse, per tanto mio lungo penare in queste cose; le mostro come messaggero, più che come inventore.
Si vede subito che queste immagini appartengono a vari diversi regni delle sembianze e, come dico prima, una parte come natura, una parte come qualcosa che la precede negli elementi, altre invece possono apparire vicende combinate inestricabilmente ad altre, come archetipi, e si collocano nella loro brillante solitudine e perentoria certezza. Quelle dai molti segni, più lievi; quelle da pochi segni, più potenti ed incisive, quasi come la traccia del nomade nel deserto, unica evidenza singolare in una distesa monotona.
Ora capisco che l'andare della punta è come l'andare di un dito sulla sabbia, creando due penombre e due brillii sulle creste della traccia, significa, in un atto, qualcosa di estraneo al mezzo ed insieme importante, come testimonianza di una umana presenza.
Quelle che alludono ad una prospettica non la abbandonano mai ad una terza dimensione con i trucchi della scenografia, ma piuttosto come intreccio, ma è una scelta fra due dimensioni spaziali ed una temporale, così si realizza una cosa unica; il linguaggio si snoda e libera di volta in volta senza mai ingabbiare una situazione e senza mai congelare la vicenda.
La noia che incombe su moltissime opere d'arte, anche assai notevoli, è questo ingabbiamento, si sente già che nell'artista il tarlo dell'ingegno corrompe fatalmente la traduzione della visione e la fa diventare stucchevole in quanto privata della nobiltà dell'arte e cioè della sua avventura.
Tornando alle stampe, vengono così alla percezione, di volta in volta, il vegetale o l'animale o il minerale nelle pietre, nelle acque, nei cieli; ognuno col naturale inalterato, ma interpretato e fissato in modo giusto. Il duro dosso dell'elemento razionale non disdegna la compagnia del farnetico e, come è giusto, spesso si vede che uno è l'altro, con quello scambio osmotico dell'universo. É la legge del gioco delle apparenze.
Molti anni fa mi era venuta l'idea di una "cosmogonia", forse quest'opera è quella "cosmogonia" rivelata in un'ambiente tipico, specifico, ma in quanto tale parte completa di altro. Quindi ogni immagine può essere a se stante e contemporaneamente non rifiuta o addirittura chiama tutte le altre. Difatti tutte assieme fanno una composizione, come se gli elementi di ognuna non esistessero, se non contenuti nella composizione dell'immagine, che in sé porta i propri organi come un corpo vivo a cui era legge solo la sua necessità quando collimava con la mia interiore esigenza da formare, e fermare così e così la cosa stessa e non l'apparato che la potrebbe quasi sostituire; per cui quel che appare sulla carta è il più realizzabile di ciò che la mia necessità interiore mi propone, e nel contempo accetto.
Bisognerebbe meditare sulla funzione della inutilità, molto cambia in una persona che maturi considerazioni assennate su questo ingombrante inutile. Questo ingombrante inutile, così ricco di necessità interiori, verrebbe in fondo a restituire un tipo umano straordinariamente evoluto e di gran salute, ma socialmente refrattario alle suggestioni dell'utilitarismo, con gran pregiudizio della sfacciata fortuna dei mediocri, per cui si fodera di utilitarismo anche la religione, così come c'è il pericolo di novità.
Che ci sia un riferimento alla natura, intendo un riferimento diretto alla natura, nel senso inteso dallo scienziato materialista o dall'amatore della natura, vista esteticamente, (per un'artista cosa impossibile) non scorgo. Vedo piuttosto un rapporto di euritmia della mia immagine con l'abitudine di porre sensazioni e percezioni e così avanti secondo importanza, così come in prospettiva si mettono delle parole su qualcosa, per formare su quel qualcosa delle idee. Pertanto l'immagine ridonda di natura, perché io ho una parte di me che è tale, ma è solo una passività che può, volendo, offrire ricchezze incredibili a tantissime idee, ma mai procurare il senso del vivo che ha l'opera spirituale.
Sento in queste immagini un sottofondo di coro continuo, di toni gravi, ricuciti di toni più acuti e più radi, come se un popolo scomparso facesse gaudiosamente una confessione generale su una temperie spirituale in cui, i peccati vergognosi, non ci siano e quindi sia facile testimoniare.
Eugenio Tomiolo
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