Il Mondo di Eugenio Tomiolo (E.T.)

Arcumeggia - 1985

Arcumeggia è un piccolo centro, nella provincia di Varese, situato su una sella montagnosa che chiude quasi il passo a chi voglia salire dalla Valcuvia verso il magnifico panorama che, dall'alto del Monte Nudo, si presenta sul bacinodel Verbano.

I Romani, o gli antichi italici che prima di loro tracciarono le strade destinate a congiungere la zona pedemontana e quella alpina alla pianura del Po, evitarono l'ostacolo dei laghi e delle costiere tagliate a picco aggirando i massicci e raggiungendo le sponde dove la foce di un fiume o d'un torrente spianava il profilo dei monti.

Ceresolo per esempio, presso Cerro, dice il Morigia nella sua «Historia della nobiltà, et degne qualità del Lago Maggiore », «vogliono che sia il luogo dove nel passaggio si fermasse Giulio Cesare nell' andare in Francia». Per cui Ceresolo «è parola corrotta, che vuol dire Cesarolo».

Le strade che risalendo lungo il Ticino si affacciarono alle Prealpi, costrette a deviare, scoprirono un fertile retroterra, cosparso di laghi minori e propizio al formarsi di comunità contadine.

Il percorso che faceva capo all'ultima propaggine del lago Maggiore toccò brevemente le rive per poi girare intorno ai rilievi di Angera e di Ispra; giunto davanti ai monti di Laveno, li contornò lungo la Valcuvia e la Valtravaglia per riaffacciarsi sul lago a Germignaga o a Luino, donde sali per i colli, diretto ai valichi che mettevano dentro il cuore delle Alpi. Quei luoghi, ancora senza nome, o con nomi che il tempo avrebbe corrotto e mutato, cominciavano a legarsi insieme con un filo destinato a persistere con lievi modifiche nei secoli e a determinare il formarsi di paesi e città.

Rimaneva isolata, tra i monti di Laveno e la rocca di Bedero, la conca della Valtravaglia, pianeggiante e ricca di terreni coltivi, ma raggiungibile soltanto da due piccoli passi collinari tra Bedero e Brezzo di Bedero, tra il Cuvignone e il S. Antonio. Dalla Valcuvia si saliva a Vararo, o più agevolmente ad Arcumeggia, per scendere nell'amena Valtravaglia che doveva lentamente costellarsi di paesi: Caldè, Porto, Sarigo, Muceno, San Pietro, Castello Veccana, Nasca, Domo, Ronchiano: un piccolo mondo che ebbe il suo lento sviluppo e che ancora si raccoglie in un insieme armonioso.

Arcumeggia, alta sulla Valcuvia, fu luogo di passo, con qualche osteria e locanda, fin da epoche lontane. Si aggruppò sul colle, richiamò a sé gente del piano, contadini e pastori, e traversò per secoli una lunga vicenda che la storia non registra. Qualche pietra, qualche tomba, i rudimenti latini del suo nome (Arx media) e qualche voce celtica, latina o longobarda del suo dialetto, sono quanto rimane.

In epoche più vicine a noi, molti dei suoi abitanti si unirono ai flussi migratori diretti verso le Americhe, e poi stagionalmente verso la Francia, la Svizzera, la Germania e l'Algeria. I capimastri, i muratori e gli imbianchini che tornavano al paese nel periodo invernale, ricostruirono un anno dopo l'altro il paese per prepararsi la dimora della vecchiaia.

Le antiche casupole si alzarono di qualche piano, si aprirono terrazze e loggiati, nuove costruzioni si aggiunsero e anche la chiesa, sopra un rilievo di fronte al paese, divenne più ampia, pur sacrificando le forme primitive che la legavano alla vasta rete delle chiese romaniche della regione. Il passo o colle verso la Valtravaglia non fu più che un modesto sentiero e le case, tutte rivolte verso la Valcuvia e orientate tra mezzogiorno e ponente, divennero altrettanti balconi affacciati sopra la verde conca che si apre da Rancio a Cittiglio, chiusa dal S. Martino e dal S. Antonio verso nord e dal Campo dei Fiori verso la pianura lombarda.

La riscoperta di Arcumeggia avvenne ai primi del secolo da parte di modesti villeggianti milanesi che si contentavano di qualche stanza ariosa, del latte fresco e dell'aria pulita. Ma di una vera ripresa si poté parlare solo quando l'Ente Provinciale per il Turismo di Varese nel 1956 pensò di ambientare ad Arcumeggia una serie di affreschi, chiamando a coprire le pareti esterne delle case i maggiori pittori contemporanei. Le strade della Valcuvia conoscevano da qualche secolo la libera e fantasiosa attività degli affrescatori popolari. Paesi come Rancio e Cantevria erano cosparsi di affreschi lungo le vie o dentro i cortili, nei quali si ripeteva a fine devozionale e votivo la tradizionale iconografia cristiana consacrata nelle chiese. La passione dell' affresco, del manifesto murale permanente della pietà, poteva trapassare in una manifestazione artistica vera e propria, tale da trasformare un intero paese in una mostra capace di documentare una tecnica mai abbandonata dalla pittura italiana e sempre rifiorente anche fuori dalle esigenze del culto. Si trattava di offrire ai pittori l'occasione di un colloquio aperto col pubblico e al tempo stesso di favorire la partecipazione di ogni strato sociale alla problematica delle forme pittoriche, che anche qui si propone, talvolta tra astratto e figurativo e, nell'ambito figurativo, tra le singole e qualche volta contrastanti personalità dei vari artisti.

L'idea, che era sorta nell'ambito delle iniziative turistiche, arrivò ad imporsi come avvenimento artistico per merito dei Maestri chiamati all'impresa, fra i quali si possono riconoscere i nomi più risonanti della pittura contemporanea italiana.

L'Accademia di Brera trovò opportuno aprire ad Arcumeggia un corso estivo di tecnica dell'affresco per i suoi allievi; critici, appassionati d'arte, turisti e curiosi di ogni specie accorsero ad Arcumeggia a seguire, di anno in anno, l'apparizione di nuovi racconti pittorici sulle pareti dell'incontaminato villaggio che diventava di giorno in giorno un luogo d'incontro dell'arte. Per i pittori che vi andavano ad eseguire affreschi, l'Ente Provinciale per il Turismo di Varese attrezzò e mise a disposizione una comoda casa.

In pochi anni l'iniziativa ha preso piede, ha trovato il consenso del pubblico e della critica e si inserisce oramai tra quelle manifestazioni turistiche di alto livello che realizzano un fine di cultura associandolo a motivi di diletto e di nobile evasione. Il volto del paese può dirsi ormai mutato, ringiovanito quasi dalla sua nuova fisionomia di gran laboratorio all'aperto che i pittori hanno sovrapposto a quella antica, prettamente rurale.

Andare oggi ad Arcumeggia vuol dire voltare le spalle per alcune ore alla febbre della circolazione automobilistica, alla vita convulsa delle città dove non è più possibile soffermarsi a guardare una chiesa o un palazzo; vuol dire ritornare nella pace antica di un ameno villaggio fra i monti, dove con occhio calmo e riposato è facile prendere un contatto indisturbato col messaggio che alcuni fra gli artisti più eminenti del nostro tempo sono venuti a collocare fuori dalla vicenda commerciale e dalla stessa eterna polemica sulle forme dell'arte, per iniziare un discorso sereno col pubblico più vasto, che fu sempre il pubblico naturale dei grandi pittori di muraglie del passato, dai tempi in cui «Les cloitres anciens sur leur grandes murailles / étalaient en tableaux la sainte verité», fìno a quando gli affreschi adornarono le ville di delizia, le dimore principesche e, nelle versioni popolari, le Vie Crucis, i sacri monti, le solitarie edicole tra i campi o lungo le salite dei monti. Arcumeggia è quindi non solo un ritorno e una ripresa della tradizione artistica lombarda, ma anche la celebrazione del popolo delle Prealpi, per secoli operoso in ogni parte d'Europa.

Piero Chiara


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Pittura in arcumeggia

1 - AFFRESCHI LUNGO LE STRADE

Alla catena di piccoli, e fino a ieri ignotissimi, borghi, che l'arte moderna ha tratto a notorietà internazionale è forse il momento di aggiungere un altro anello, un anello italiano, che, se per certi versi apparirà più modesto, per altri potrebbe riuscire di più largo e vario interesse. L'anello si chiama Arcumeggia.

Qualcuno potrebbe sorridere alla pretesa di paragonarne il prestigio a quello, poniamo, di Vallauris o di Ronchamp o di Vence o di Altillo, e potrebbe anche, e giustamente obbiettare come, per parlare di villaggi italiani, sarebbe allora più facile indicare, per esempio, Barzio o Anticoli Corrado mettendo a paragone di Picasso, di Le Corbusier, di Matisse, di Félix Candela un Medardo Rosso o un Arturo Martini. Sennonché al prestigio, certo alto e singolare, derivante da un solo capolavoro, «unicum» anche in senso quantitativo, o all'eco gloriosa di un solo maestro, Arcumeggia contrappone la circostanza rara, anzi forse unica oggi, di offrire, per exempla, una sorta di canovaccio, ellittico e lacunoso fin che si voglia, ma esteso e vario, di cinquant'anni di pittura italiana.

Anche qui prevediamo le obiezioni, e per non perdere tempo le formuliamo noi stessi.

Come si può parlare di cinquant'anni di pittura italiana se tutto si è svolto in questi ultimi dieci anni, e se pure, come noi proponiamo, ci si riferisca agli autori, come si potrebbe sostenere che siano presenti tutti i protagonisti qui dove mancano, per motivi affatto contingenti, un Sironi, un Carrà, un De Pisis e un Casorati e un Campigli? Infatti non lo si pretende.

Il nostro è tutt'altro discorso, né vuole ignorare come la rassegna degli affreschi di Arcumeggia orchestri una sorta di concerto in tono minore, ma senza sfasamenti, senza mancamenti, un concerto di una nobiltà sommessa e schiva che sembra naturalmente e mirabilmente adeguarsi alle tonalità discrete e limpide di questa Valcuvia verde come l'Umbria, alla rurale schiettezza di questo borgo collinare, dove, per un felice destino, gli affreschi nuovissimi sono subito diventati familiari e le composizioni moderne sembrano quasi essere spontaneamente fiorite, senza stridori né scarti né fatica, sulle antiche murature di pietra grigia e di sassi, umili, incolori «terrigene» e bellissime.

«Minor Musa », dunque; ma proprio per questo, e forse per quella specie di abbandono e di libertà che i pittori quassù hanno sentito, testimonianza singolarissima e pluricorde, non tanto di questo o quel maestro, quanto di una civiltà pittorica, di una stagione dell'arte italiana, che, da Funi a Dava, abbraccia indirettamente ma saldamente mezzo secolo.

Indirettamente perché, già lo si è detto, le pitture corrispondono a un ciclo temporale abbastanza breve, ma le esperienze, i gusti, gli umori, le inclinazioni, le scelte, che in esse si riflettono, svariano dal novecentismo di un Ferrazzi o da quello di un Funi passato per l'avventura futurista, al novecentismo «reattivo », tipo «Corrente», di un Sassu o di un Montanarini, o di tipo ingenuo e ruralistico alla Tomea, fino al surrealismo, tentato di astrattismo, di un Dova o alla neofigurazione di un Brindisi.

I temi, scelti liberamente dai pittori, hanno finito per spontaneamente accordarsi alla natura e alla «storia senza storia» del luogo.

Ove si tolga la «Corrida» di Dova, che è quasi un fuori testo, tutte le altre figurazioni finiscono per comporre quasi un racconto, o meglio una rappresentazione per «mansioni», o una leggenda, della vita che, da secoli, si dipana, semplice ed eguale, fra queste mura spoglie, antiche e ospitali. Il «Trionfo di Gea» nella evocazione del tema mitico potrebbe forse alludere alle origini romane dell'insediamento umano di Arcumeggia, ma pur al di là della implicazione classica, forse troppo speciosa e culta, Monachesi ha tradotto il suo «trionfo» in una scena giocosa, senza ombra di sussiego, nella quale il riferimento classico, se vi è, è in chiave fescennina, mordace e popolaresca, tanto che finisce per partecipare del medesimo clima delle altre composizioni che, ove non si riferiscano ai temi ricorrenti e sempre presenti della leggenda cristiana, danno forma e luce e colore e voce alle vicende del borgo: la maternità, i giochi dei bimbi, la partenza e il ritorno dell'emigrante, le donne che attendono, i lavori degli uomini, o la corsa ciclistica, e cioè il mito popolare dei nostri giorni.

Quanto ai modi espressivi testimoniati dalle opere diremmo che si possono distinguere in quattro diversi orientamenti, pur con la latitudine che si deve consentire a queste - sempre artificiali - partizioni, che sono legittimate soltanto dalla comodità del discorso poiché ogni artista rappresenta sempre, e fortunatamente, un caso personale e privato.

Opere come quelle di Aldo Carpi e di Giuseppe Montanari rappresentano una pittura precedente e, poi, contemporanea, ma estranea al Novecento, mentre gli affreschi di Ferrazzi, di Funi, di Morelli, sia pure in modi affatto diversi e talora divergenti, si riconducono a una maturazione di quel rinnovamento della pittura che si chiamò genericamente Novecento e che non si esaurì affatto, come da taluni si è preteso, in conati retorici o in gratuiti ossequi alla tradizione.

De Amicis, Usellini, Brancaccio, Migneco, Monachesi, Tomea, Ilario Rossi, Saetti, Tomiolo, Menzio, Sassu potrebbero invece rappresentare lo svincolo dal Novecento tentato dalle generazioni successive, svincolo che ha in ciascuno, naturalmente, motivi e sapore diversi, e varia dalla personale rimeditazione di un De Amicis, che guarda ai primitivi e a Modigliani, o dall'estro fabuloso di un Usellini alla opposizione «torinese», eppure segretamente casoratiana, di un Menzio o alla sensuale e naturalistica ribellione di un Sassu o di un BrancaccioLe esperienze più recenti e più irrequiete, quelle che si possono riferire al primo dopoguerra italiano. traspaiono dalle opere di Brindisi, di Dova e del più anziano Montanarini.

La «Madonnina» di Achille Funi, posta all'ingresso del paese entro un'edicola dimessa di tono tradizionale e campestre, riecheggia uno dei momenti migliori del maestro, quello fra il '25 e il '30 in cui gli riuscì talvolta di restituire alla infatuazione e al mito neoclassici una epidermica, e tuttavia vibrante e sognante, attualità.

Ferrazzi sopra la sua «Attesa» sospende un fiato rosato e caldo di incipiente primavera, un fiato lieve. che agita i tendaggi e avvolge la scena familiare, più felice nella composizione che nella stesura. Nel grande medaglione della «Samaritana al pozzo» Enzo Morelli si impegna in una inquadratura ad assoluti primi piani, per lui insolita.

Diremmo che la scena, impostata più su un tono di corrente novellismo che di acceso misticismo, riveli, nella elegante scioltezza dell'espressione, una padronanza dei mezzi pittorici cui raramente Morelli fa ricorso.

Gli infantili «Giochi» di Francesco Menzio costituiscono una pagina di deliziosa freschezza e finezza: appunto una pagina acquerellata staccata da un album raffinato e assunta, in via provvisoria o per svista in funzione di pittura murale, un po' come nel caso di Ferruccio Ferrazzi. Senso assolutamente murale invece nella «Madonna e Angelo» di Cristoforo De Amicis, che ha concluso, qui, un brano pittorico di notevole impegno, sebbene palesemente condizionato da quelle inclinazioni frammentistiche e arcaizzanti, che hanno tutta l'aria di servire da alibi.

Non è certo il caso del solo De Amicis, qui stesso vi si rifugia, nella stazione dipinta per la Via Crucis, e con anche maggiore insistenza, Montanarini; e, d'altro canto, se ne servì Rouault, e lo stesso Sironi, in un certo momento, vi si appellò dichiaratamente.

Non pensiamo certo di accusare di illegittimità la strada dell'arcaismo, né qualsiasi altra strada. Nella poesia, concedendolo la grazia, qualunque pretesto può essere redento.

Soltanto ci diverte constatare come uno degli infiniti conati verso la modernità escogitati da questo nostro tempo alessandrino, raffinato e instabile, finisca a passare proprio per la via dell'arcaismo, quando non passi - la Diomercé - per quella della barbarie o, magari, della negritudine.

Una talquale legnosità e il delizioso impaccio della composizione di Usellini, «Il ritorno dell'emigrante», si giustificano nell'aura un po' estatica da teatro popolare o da sacra rappresentazione, il cui fascino è un poco offuscato e come riassorbito dalla cupezza dei toni.

Più indifferente che serena, più ferma che fiduciosa la «Speranza» di Eugenio Tomiolo, è una Speranza, un poco grigia, che ci suscita il ricordo della «virile pazienza» damnunziana.

Nella pittura di Giuseppe Migneco, che si sviluppa da una lontana suggestione picassiana, il medesimo tema dell'emigrante passa dal popolare al tragico, un tragico che per la verità confina con il grottesco: ma si riscatta nella equilibrata saldezza della composizione abilmente imperniata nella figura adusta e solenne della madre, e bloccata, all'orizzonte, dai monti incombenti e ossessivi.

La grande illustrazione da «Domenica del Corriere », che Aligi Sassu dedica alla corsa ciclistica con Fausto Coppi protagonista, si risolve in una allusione, forse troppo sottile, alla banalità del tema, ma proprio in questa palese insistenza trova una sua ingenua ed esplosiva vitalità.

La disinvolta e corsiva eleganza di Giovanni Brancaccio, in questa sua «Donna alla finestra», deve forse qualcosa a Campigli, ma ha, di suo, una impetuosa spigliatezza e una sicurezza immaginativa che si ritrovano, con più violenza cromatica, nella «Maternità» di Bruno Saetti, e, con più intimismo e maggiore spregiudicatezza, nella «Donna che si pettina» di Ilario Rossi.

Fra le esperienze più recenti, e cioè fra l'eleganza decorativa della grande «Composizione» di Montanarini e la raffinata crudeltà surrealista della «Corrida» di Gianni Dova, che si è più impegnato è Remo Brindisi.

L'affresco di Brindisi, invece di concludersi in un episodio dell'architettura, in una magica finestra aperta nel vivo del muro, si è impossessato della intera facciata cosicché, rovesciato il rapporto, aperture e davanzali e porte e stipiti e gronda, diventano, a propria volta, episodi della grande finzione pittorica.

Anzi, perché la sutura pittura-architettura si attuasse pienamente sarebbe stato necessario che gli elementi edilizi entrassero nella composizione con una propria funzione rappresentativa, con una propria giustificazione figurativa, come avveniva nelle case del Bellunese o nei palazzi dipinti della Liguria cinque e secentesca.

Brindisi ha rinunziato alla risorsa che la finzione avrebbe potuto offrire, forse per uno scrupolo antitradizionale, e ha preferito stendere il suo affresco senza preoccuparsi delle partizioni architettoniche se non come limiti obiettivi ed esteriori.

Ne è venuto come un grande arazzo, forato casualmente dove si aprono le finestre e condizionato soltanto dalle dimensioni fisiche dell'insolito supporto. Una pittura asciutta e acre, come è nella natura di questo pittore, tutta giocata sui verdi, sui gialli, sui neri, così come quella di Sassu si ubriaca invece e si accende di rossi e di viola. Una pittura non priva di acidità, ma nemmeno di autorità monumentale.

La più giovane delle pitture di Arcumeggia è il grande affresco del vecchio Aldo Carpi. Il «S. Ambrogio che benedice Arcumeggia», per certi versi potrebbe ricordare il folcloristico Hodler, non però nella solare, levigata luminosità del colore, e nemmeno nella baldanzosa fiducia con cui il maestro, forse senza proposito, si è ritratto nella figura del grande vescovo.

La fiducia degli iniziatori e l'opera di un manipolo di artisti, hanno trasformato un villaggio, incantevole per virtù natìa, ma abbandonato e ignoto, in una sorta di nuovissimo «borgo pinto» che molto naturalmente e pertinentemente ambisce al titolo di Galleria all'aperto dell'arte moderna, in un senso del rutto particolare, senza che noi crediamo di cogliere proprio nella scelta, del resto dettata dalle circostanze, della tecnica a fresco.

Sempre più nelle espressioni odierne si afferma il criterio, che è piuttosto un non-criterio, della labilità, della provvisorietà, della inconsistenza. La volubilità e caducità delle mode, le presunte esigenze della cultura-non-cultura di massa, la stessa aridità e fatuità distratte del cosiddetto homo ludens, convengono, oggi, verso i limiti dell'annullamento, che si può chiamare, volta a volta, alienazione se riferito all'uomo, obsolescenza se alle cose.

Qui, e proprio nell'impiego dell'affresco, che è la pittura per l'eternità, è, in qualche modo, implicito un rifiuto di tutte queste inquietudini, di tutte queste vacuità, esplicita la fiducia in valori non soltanto e non più transitori, non soltanto «ludici» e cioè «lusori» e illusori. Da questi muri figurati, da questi muri che «ridono» come già le «carte» che Odersi da Gubbio illuminava, si può forse cogliere il messaggio che supera la modestia dell'impresa, un motivo di meditazione che, al di là dell'episodio e perfino al di là dei risultati contingenti, potrebbe essere altamente e pungentemente stimolante.

2 - LA VIA DELLA CROCE

In misura molto modesta, del tutto inconsapevolmente e perciò con autentica spontaneità, qui in Arcumeggia, si riflette l'idea millenaria del grande santuario isolato e, in buona parte, ipetrale, quello che potremmo anche dire il santuario-giardino o santuario-parco dei Greci e degli Estremorientali, idea, che, nella cristianità, in modi e con accenti diversi, risorge nelle abbazie, nei monasteri medievali e, con anche maggiore aderenza, nella arca dica poesia dei sacrimonti secenteschi.

Qui, per la verità, si tratta di un semplice recinto murario di rustico sapore, lungo il quale ordinatamente si succedono le quattordici stazioni della Via Crucis, e cioè non già di un santuario o di un tempio, ma soltanto di una evocazione allusiva ad essi, soltanto della delimitazione di uno spazio terrestre e celeste, il quale dallo spazio universale non si esclude, ma vi si immerge sperdendovisi.

L'esiguità, quasi restia, dell'opera muraria improvvisamente ci rammenta la domanda che il cristiano Octavius, nel dialogo famoso di Marco Minucio Felice, rivolgeva al pagano Caecilius: «quale tempio mai potremmo innalzare a Dio, quando questo mondo da lui creato è incapace di contenerlo?»

A questa stregua il recinto costruito dall'architetto Bruno Ravasi, con così misurato e vivo senso del paesaggio, può essere letto come un tempio aperto, ipetrale, sub Jove, anzi - secondo Octavius - proprio come un tempio-non-tempio, le cui strutture essenziali non siano già la muratura con il suo intonaco a rinzaffo, gli sfondati cuspidati con le proprie cornici, gli embrici a doccia, ma piuttosto il suolo declinante, gli alberi, la volta del cielo, la variabile luce del giorno e, perfino, lo stormire lieve delle fronde al vento prealpino.

Come il recinto - cioè questa, abbiamo detto, allusione al tempio - è una sorta di sommessa mediazione fra la natura e l'artificio, e cioè fra il «creato» e il «costruito», cosi la voce, che i pittori ad esso hanno prestato, rinarra la storia della passione di Cristo, cioè di quella che si pone come la più alta, misteriosa e cruenta mediazione fra il divino e l'umano.

La Via Crucis, e cioè la «sacra rappresentazione» o, più propriamente, «sacra tragedia », si svolge, secondo i modi e i tempi canonici, in quattordici «stazioni» o «mansioni» o scene.

Le stazioni avrebbero potuto, o forse dovuto, essere di una mano sola, come di solito avviene; ma in questo Paese di pittori, dove, dopo la natura, l'unica ricchezza è la pittura, non sembrava il caso di preoccuparsi di limitazioni, e cosi non un pittore, ma undici accolsero generosamente l'invito a ripensare e rappresentare una storia che già innumerevoli volte (quante?) era stata rappresentata, narrata, commentata, meditata.

Due difficoltà, e gravi entrambe, si opponevano all' impresa; prima quella del tema stesso, iteratissimo e quasi consunto da secoli, seconda - appunto - la circostanza, cui si accennava dianzi, della pluralità delle mani, e quindi della varietà, ingovernabile, dei temperamenti, delle facoltà, delle inclinazioni e preferenze degli artisti, varietà la quale avrebbe potuto incrinare l'ideale unità di un ciclo, che, per svolgersi in ritmica coerenza e con significante efficacia, avrebbe ammesso, forse, ineguaglianze, ma non sfasamenti di tono o deviazioni o troppo stridenti iati.

Nessuna delle due difficoltà risulta compiutamente superata, anche perché del tutto superabile non era.

Le differenze di sentimento, di intensità, di stile fra una composizione e l'altra, rimangono notevoli, il che, se nuoce all'unità del ciclo e al coerente fluire della narrazione, ne rende più traumatica e sollecitante la lettura e, dobbiamo dire, ne vivifica l'interesse più strettamente pittorico come testimonianza di una varietà di temperamenti non confondibili, che qui animosamente si confrontano in quella ricchezza di contrasti, i quali, non da un coro, ma da una serie di assolo, sembrano innalzarsi.

Più felicemente l'impresa ci sembra aver avuto ragione della seconda difficoltà, e forse proprio in proporzione inversa e a causa di quelle discrepanze di tono e di stile che la mettono in mora di frante alla prima.

Si vuol qui osservare come, nonostante la consunzione del tema, i vari pittori siano qui riusciti, quasi sempre, ad evadere nettamente dagli schemi e dai moduli consueti, senza per questo scivolare mai nella inconcludenza dell'astruso o del bizzarro, e nemmeno nella gratuita vacuità dell'insignificante.

La corsiva impaginazione del «Gesu caricato della Croce» di Sante Monachesi, la tenerezza acida e crudele di cui Remo Brindisi illumina l'incontro di Gesù con la Madre, l'ispirazione vagamente paleocristiana di Enzo Morelli nel mosaico di «Gesù aiutato dal Cireneo», l'incantato arcaismo di Ilario Rossi nell'«Incontro con la Veronica» e il primitivismo - anche troppo insistito e «iconico» - di Luigi Montanarini in «Gesù cade la seconda volta», l'inconsuetudine del taglio nelle due scene di Giannlippo Usellini «Gesu cade la terza volta» e la «Deposizione di Croce»), la sensualità fastosa di Giovanni Brancaccio nella «Spogliazione» e quella accesa di Aligi Sassu in «Gesù inchiodato alla Croce», e soprattutto quell'aura fatale, segretamente venata di speranza, che Eugenio Tomiolo sospende sulla visione precipite del suo «Cristo calato nel sepolcro» si risolvono, secondo vocazioni diverse, in altrettanti motivi di inaspettata, e talora attualissima, originalità.

Originalità e indipendenza creativa, che, nelle composizioni di Giuseppe Montanari «La condanna a morte» e «Incontro con le pie donne» e nei primipiani «Gesu cade la prima volta» e «Morte in Croce» di Aldo Carpi, sembrano naturalmente trovare un ideale - quasi impercettibile, ma effettivo - momento di sutura con la costante presenza di una tradizione figurativa, nonostante tutto, perennemente viva.

Agnoldomenico Pica

Arcumeggia - La speranza, 1956, affresco cm. 140x115
Arcumeggia - La speranza, 1956, affresco cm. 140x115

Arcumeggia
Cristo calato nel sepolcro. Stazione n.14 Via Crucis - affresco del 1965

La costruzione in muratura che ospiterà le 14 Cappelle della Via Crucis sul sagrato della Chiesa è terminata. Da sinistra Tomiolo, Usellini, De Amicis, Brindisi, Montanari, Arch. Ravasi, Morelli (Maggio 1959)
La costruzione in muratura che ospiterà le 14 Cappelle della Via Crucis sul sagrato della Chiesa è terminata. Da sinistra Tomiolo, Usellini, De Amicis, Brindisi, Montanari, Arch. Ravasi, Morelli (Maggio 1959)

L'inaugurazione della personale del maestro E. Tomiolo nella Bottega del Pittore. Ogni anno Arcumeggia, nel periodo estivo, ospita interessanti mostre (Agosto 1973)
L'inaugurazione della personale del maestro E. Tomiolo nella Bottega del Pittore. Ogni anno Arcumeggia, nel periodo estivo, ospita interessanti mostre (Agosto 1973)

Gruppo di artisti intervenuti ad Arcumeggia, per la celebrazione del decennale
			Dei primi affreschi; da sinistra: Rossi, Carpi, Brindisi, Monachesi, Montanarini, Montanari, De Amicis, Usellini, Tomiolo (giugno 1965)
Gruppo di artisti intervenuti ad Arcumeggia, per la celebrazione del decennale dei primi affreschi; da sinistra: Rossi, Carpi, Brindisi, Monachesi, Montanarini, Montanari, De Amicis, Usellini, Tomiolo (giugno 1965)

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